ASSASSINATION (Ansatsu, SHINODA Masahiro, 1964)
SONATINE CLASSICS
di Vittorio Renzi
Ansatsu, primo jidaigeki diretto da Shinoda, uscì quando il genere stava per conoscere il declino, e questo nonostante il veto statunitense al genere fosse cessato nel 1951. Shinoda Masahiro, ex aiuto regista di Ozu era il miglior conoscitore fra i registi della Nūberu bāgu della storia e delle tradizioni del suo Paese, il più attratto all’idea di trasposizioni di opere letterarie o comunque di ambientazione storica. Tuttavia, in quei primi anni Sessanta, anche Shinoda come gli altri registi della sua generazione voleva sperimentare, parlare del presente, ma, dopo i suoi primi esiti, la Shochiku gli impose soggetti più classici. Salvo poi impedirgli di realizzare il progetto al quale teneva di più, Double Suicide (心中天網島, Shinjū Ten no Amijima). Motivo per cui l’anno successivo all’uscita di Ansatsu, nel 1965, Shinoda se ne andrà per fondare la propria casa di produzione, Hyōgensha e nel 1969 realizzerà finalmente, tra gli altri, anche il suo ambito progetto. Ma oltre a Double Suicide, col passare del tempo, Shinoda tornerà spesso al jidaigeki.
Giappone, fine era Tokugawa. A Edo, il ronin e maestro di spada Kiyokawa Hachirō, per ragioni sconosciute, decapita un funzionario dello Shogun. In cambio del perdono, accetta di guidare una truppa di 234 ronin, chiamati Roshigumi, per recarsi a Kyoto a proteggere lo Shogun durante l’incontro faccia a faccia quasi senza precedenti tra quegli e l’imperatore. Kiyokawa sembra deluso dalla causa imperiale che aveva fino a quel momento appoggiato. Ma qual è il suo vero obiettivo?
Come Gohatto – Tabù (御法度,Gohatto, 1999), di Ōshima Nagisa, il film di Shinoda è basato su una storia del principale romanziere storico giapponese Shiba Ryōtarō. Ansatsu racconta gli ultimi anni dell’era feudale Tokugawa (1603-1868) prima della restaurazione Meiji (1868-1912) che portò il Giappone a divenire uno stato moderno. Il film è molto complesso e richiede un minimo di conoscenza di quel periodo della storia del Giappone per essere seguito e compreso, tenendo anche presente che non pochi sono i riferimenti al Giappone del secondo dopoguerra. Fu girato infatti subito dopo la firma del trattato di Anpo, quando il clima politico era decisamente irrisolto riguardo all’esatta natura della costituzione giapponese e alla direzione in cui si stava dirigendo la nazione. La situazione di questa lotta di potere tra l’ordine costituito, le forze insurrezionali e le potenze straniere durante gli anni ’60 era quindi per certi versi analoga agli eventi di cento anni prima rappresentati nel film. Ciò che Ansatsu materializza sullo schermo è, di fatto, il sentimento d’incertezza provato dalla generazione di Shinoda cresciuta nell’immediato dopoguerra.
Cercheremo di riassumere qui brevemente i fatti principali. Il film si apre con l’assassinio del Tairō (ovvero Grande Anziano, sorta di primo ministro dello shogunato) Ii Naosuke, il 24 marzo 1860 da parte di un samurai, allo scopo di umiliare il daimyo (signore feudale) Noriaki. Pochi anni prima, nell’estate del 1853, la flotta del Commodoro Perry aveva obbligato il Giappone ad aprire i suoi porti e a firmare un trattato commerciale, ponendo fine in tal modo al suo secolare isolamento mercantile e culturale. Il Paese ora è spaccato tra lo shogunato Tokugawa di Edo, favorevole alla presenza degli stranieri in patria e a una sempre maggiore indipendenza, e le forze imperialiste, nazionaliste e xenofobe di Kyōto, che volevano la cacciata immediata degli stranieri dal suolo natio. Dopo l’omicidio di Ii, le nozze combinate tra lo Shogun e la sorella dell’imperatore Kōmei tampona un po’ gli attriti ma non li risolve. Kiyokawa Hachirō, samurai di umili origini ma dalla grande abilità (è anche maestro della scuola di spadaccini Itto), diviene così la figura chiave di questa scissione: apparentemente di incrollabile fede imperialista, dopo aver ucciso un funzionario dello Shogun, messo a capo di un piccolo esercito di ronin detto Rōshigumi, si ritrova ad agire – forse a mo’ di riparazione per il suo crimine – per conto dello Shogunato e quindi contro i suoi vecchi camerati imperialisti. Mentre cammina a passo sicuro per le strade, il volto di Kiyokawa ci appare spesso nascosto dal largo cappello di paglia a forma di cesto tipico dei ronin (roningasa). La sua incomparabile abilità di spadaccino viene mostrata nella scena in cui, sfidato dal funzionario Sasaki – lo stesso che verrà incaricato di ucciderlo quando e se sarà necessario – lo sconfigge in un duello con spade di bambù, umiliandolo di fronte agli allievi di costui. Un’altra caratteristica che funge da sineddoche dell’aura di grande guerriero che avvolge Kiyokawa è il fatto che egli si ritrovi in possesso di una katana di pregevole fattura, lo stesso tipo rarissimo di cui a quanto pare era stato in possesso il celebre principe del VI secolo, Shōtoku Taishi.
Il film procede a narrare la storia di questo personaggio realmente esistito attraverso una costruzione a mosaico in stile Quarto potere (Citizen Kane, 1941, Orson Welles): qual è la verità sul ronin Kiyokawa? Il racconto è inframezzato dei resoconti di singoli testimoni che, oltre a spezzare l’unità temporale, decostruiscono la figura del protagonista facendone un uomo dai mille volti. Di volta in volta, a seconda di chi ne racconta le gesta, il ronin emerge come un efferato assassino oppure come un uomo che non ha mai ucciso nessuno e rifugge dal farlo; come un fervente nazionalista o come un uomo ferito nell’orgoglio per non aver avuto il riconoscimento sociale che sentiva di meritare; come un uomo generoso che aveva comprato la libertà della sua amante, la geisha Oren, o come un folle che non esita un solo attimo a uccidere senza motivo un suo stesso amico o a decapitare un poliziotto. Con questo espediente wellesiano, Shinoda trasporta il jidaigeki nella modernità. La sua regia può apparire sostanzialmente “classica” – ancorché raffinatissima – rispetto ad altri tenaci sperimentatori della Nūberu bāgu (in particolare Ōshima o Yoshida). Ma in alcune scene si avverte già una tendenza verso l’astrattismo di matrice teatrale: nella scena in cui Kiyokawa, dopo aver ucciso il funzionario, si rifugia in casa tra le braccia della sua Oren, lo sfondo diventa quasi nero, alla luce di una lanterna s’intravvedono solo alcuni tasselli dell’intelaiatura di uno shoji: sembra già il bunraku di Double Suicide. E poi ancora i fermi immagine, le immagini improvvisamente private di sonoro, ad eccezione della musica, le articolazioni non solo temporali del montaggio, etc.
Ansatsu costituisce un’importante lezione non solo sull’irriducibilità di un uomo (e di un’intera epoca) a facili formule o etichette, ma anche sull’ambiguità ontologica delle immagini, la cui “verità 24 volte al secondo” – per citare Godard – non è però certamente una verità da referto, da prova provata. Le immagini di Shinoda sembrano dirci al contrario che la realtà è densa e ambivalente, e il cuore di un uomo insondabile.
Titolo originale: 暗殺 (Ansatsu). Regia: Shinoda Masahiro; Soggetto: romanzo di Shiba Ryōtarō; Sceneggiatura: Yamada Nobuo; fotografia: Kosugi Masao; scenografia: Ōsumi Jun’ichi; montaggio: Amano Eiichi; musica: Takemitsu Tōru; interpreti: Tamba Tetsurō (Kiyokawa Hachirō), Iwashita Shima (Oren), Kimura Isao (Sasaki Tadasaburō), Okada Eiji (Lord Matsudaira), Ozawa Eitaro (Itakura), Hozumi Takanobu (Yamaoka Tetsutaro), Orimoto Junkichi (Serizawa Kamo), Ninagawa Yukio (Imuta Shōhei), Takewaki Muga (Miyagawa), Sada Keiji (Sakamoto Ryōma), Hayakawa Tamotsu (Ishizaka Shōzō), Suga Fujio (Udono Kyūō); produzione: Yamanouchi Shizuo, per Shōchiku; durata: 104′.