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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

FIRE FESTIVAL (Himatsuri, YANAGIMACHI Mitsuo, 1985)

SPECIALE ANNI OTTANTA

di Vittorio Renzi

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All’interno di questo decennio del cinema giapponese che abbiamo scelto di esplorare, spicca l’attività di un regista oggi poco ricordato, al quale il Bergamo Film Meeting dedicò una retrospettiva completa nel lontano 1999, ovvero sei anni prima che girasse il suo ultimo splendido film, Who’s Camus, Anyway? (Kamyu nante shiranai, 2005). E tuttavia la carriera di Yanagimachi Mitsuo, regista indipendente fra i più coraggiosi e oltranzisti cui il Giappone abbia dato i natali, inizia già nella seconda metà degli anni ’70 con il formidabile documentario in bianco e nero su una banda di bōsōzoku (giovani motociclisti, in sintesi) dal titolo Godspeed You! Black Emperor (Goddo supiido yuu! Burakku emparaa, 1976) che, fra i suoi tanti meriti, ha avuto anche quello di ispirare il nome di una delle maggiori e longeve band di post-rock. Successivamente, Yanagimachi si dedica al cinema di finzione con due esiti respingenti ma superlativi come The Nineteen Year-Old’s Map (Jukyusai no chizu, 1979) e Farewell to the Land (Saraba itoshiki daichi, 1982) i quali hanno non pochi punti in comune con il suo terzo – e forse più noto film: Himatsuri.

Gli abitanti del villaggio costiero di Nigishima, nella remota area di Kumano, sono divisi tra i boscaioli, che adorano la dea della montagna, e i pescatori, che adorano quella del mare. Ma entrambe le tradizioni sono minacciate dalla pianificazione di un parco marino. A poco a poco, allettati dall’offerta, tutti gli abitanti del villaggio firmano per vendere case e proprietà, tranne Tatsuo. Questi è un robusto boscaiolo e cacciatore, sposato e con due figli. Quando i recinti per i pesci vengono deliberatamente contaminati con la benzina, i pescatori sospettano di lui. Nel frattempo, Kimiko, una vecchia fiamma di Tatsuo, torna al villaggio per rimediare il denaro necessario a pagare i suoi debiti. Tra i due si riaccende la passione.

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Himatsuri è un film decisamente anomalo e affascinante, immerso com’è nella natura selvaggia e quasi mitologica della provincia di Kumano, nella prefettura di Mie, a sud-ovest del Giappone, stretta fra le montagne boscose e il mare. Qui si trovano alcuni dei luoghi di culto più antichi del paese. Gli abitanti del villaggio costiero di Nigishima, divisi tra boscaioli e pescatori, sono spesso in contrasto fra loro. Tatsuo è un uomo eccezionale per forza e carattere, un leader naturale, sempre in movimento, sempre a caccia (di bestie come di donne), dominatore di cani e di uomini. Ma egli sembra anche l’unico ad avere una consapevolezza profonda, autenticamente shintoista, della spiritualità insita in tutte le cose. Per questo vive un rapporto quasi erotico con la “dea” della montagna: si espone nudo al paesaggio, avvolge con lo sguardo il cielo e le vallate, abbraccia un grande albero, si lascia inondare dalla pioggia. E soprattutto osserva e ascolta ciò che gli altri non notano: durante una tempesta, mentre sta correndo nel bosco per mettersi al riparo, un tronco d’albero gli cade davanti. L’uomo dice ad alta voce: “Ho capito” e cambia subito strada per scendere verso il fiume. Qui s’inginocchia e immerge il viso nell’acqua.

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La sua vita è dunque protesa a fondersi con la natura e il divino e, al tempo stesso, costituisce quasi un affronto. L’adorazione per i kami (divinità, spiriti naturali) lo porta fino a una sorta di hýbris, di oltraggiosa tracotanza. I sentimenti che costui suscita presso i suoi compaesani vanno dal timore quasi reverenziale, alla stima, all’invidia, all’odio. Del resto, egli è l’amante di Kimiko, la donna misteriosa giunta dalla città e di cui tutti gli uomini del posto sono invaghiti. Kimiko – il cui nome, come spiega lo stesso regista in un’intervista (1), richiama quello di Himiko, personaggio semi-leggendario risalente al II secolo d.C., durante il Regno Yamatai – appare per la prima volta su una barca, in mare aperto, come fosse a sua volta l’incarnazione di uno spirito (uno spirito molto libero, a giudicare dal suo comportamento disinvolto e opportunista). Non solo, ma Tatsuo, che sta lavorando in cima a una delle montagne spioventi sul mare, sembra quasi percepirne l’arrivo, la “sente” ancora prima di vederla. Corre allora ad affacciarsi su un pendio e a scrutare il mare.

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Una volta ottenuti i soldi dai vari amanti del posto, Kumiko se ne tornerà in città, la non lontana Shingu, per aprire un locale a luci rosse. Così, sotto lo sguardo neutro e vagamente minaccioso della natura, fra realtà e sogno, amori clandestini e ricordi risolti in brevi flashback, la vita di Tatsuo e del villaggio prosegue normalmente fino al sopraggiungere del Natale e alla Festa del Fuoco che dà il titolo al film: una festa condotta da soli uomini al fine di scacciare gli spiriti maligni dall’isola attraverso un rituale che prevede l’uso di torce. Il giorno dopo, all’improvviso e inaspettatamente, accade qualcosa di tragico e irreparabile, che rimanda a un fatto di cronaca su cui si basa la sceneggiatura di Nakagami Kenji.

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Se i protagonisti dei due film precedenti erano degli outsider, alla ricerca di un posto nel mondo che non erano destinati a trovare, Tatsuo è perfettamente inserito nel suo ambiente. Al punto che, difatti, non può nemmeno immaginare di separarsene. Eppure anche Yukio, il camionista di Farewell to the Land (anche questo tratto da un fatto di cronaca) in diverse occasioni, si ferma a fissare un paesaggio naturale: un confronto che però lo porta sempre più verso il baratro della pazzia. Il caso di Tatsuo è simile ma diverso. I suoi gesti, persino i più efferati, si mantengono nell’alveo di una ritualità e a un sentire ad altri preclusi. Una spiritualità “al di là del bene e del male” che costituisce oramai l’ultimo baluardo contro l’avanzare cieco di un mondo biecamente affarista, arido e truffaldino, che della natura e dei kami non sa cosa farsene. Anche Tatsuo, come Yukio, osserva il vento che scuote l’erba, le fronde, le cime degli alberi, ma non ne è turbato. La sua è una vera e propria comunicazione ultra(intra?)terrena che lo conduce all’estasi, immagini di cui si fa complice la colonna sonora dalla partitura misteriosa e suggestiva di Takemitsu Tōru (collaboratore di Shinoda Masahiro, Teshigahara Hiroshi e di altri grandi cineasti nipponici). Inoltre, rispetto ai film citati, Himatsuri è più corale: Tatsuo non è in scena per tutto il tempo e Yanagimachi ci mostra la vita del villaggio in tutte le sue varietà e manifestazioni.

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Il film presenta alcune scene di violenza sugli animali che oggi sarebbero improponibili, fra cui quella dei cani scagliati contro un cinghiale all’interno di un recinto, ripresa in piano sequenza senza stacchi di montaggio. Inoltre, in quanto cacciatori, Tatsuo e i suoi amici spargono allegramente il sangue di scimmie e uccelli. Senza contare poi le centinaia di pesci morti per lo sversamento di benzina nelle vasche marine di itticoltura. Oggi la sensibilità degli spettatori è cambiata e scene come queste fanno sicuramente più effetto. Tuttavia non si tratta in alcun modo, almeno sul piano della rappresentazione, di violenza gratuita. Yanagimachi restituisce fedelmente il mondo di Tatsuo, il quale a sua volta vede la natura per ciò che è: violenta, crudele, selvaggia, indomabile. E lui ne condivide gli stessi aspetti perché, a differenza degli altri, sente di farne parte, e non potrebbe vivere in nessun altro mo(n)do.

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Il cinema di Yanagimachi, giustamente più volte accostato a quello di Imamura Shōhei, è per certi aspetti persino più radicale rispetto a quello del maestro di Tokyo, essendo meno interessato a una critica sociale. Yanagimachi, nato e cresciuto anch’egli, come Tatsuo, in una regione remota e immersa nella natura (ma più a nord, a Namegata, nella Prefettura di Ibaraki), parte sì dalla società ma per giungere a una sorta di crocevia fra esistenzialismo e metafisica. I suoi film indugiano sull’interiorità di uomini al di fuori del consesso sociale. Ma è un’indagine che avviene a distanza, basata su un’osservazione distaccata, fenomenologica, alla larga dagli psicologismi. Himatsuri, tra piani sequenza ed ellissi, con la profondità di campo a iscrivere e misurare i personaggi con l’ambiente naturale, sospeso tra realtà e sogno/allucinazione, procede con un’impassibilità pressoché totale, fino a una deflagrazione inattesa e scioccante. Ed è proprio questo apparente distacco della macchina da presa dai suoi soggetti a spargere sale su ferite che sono, con ogni evidenza, troppo profonde per essere ricucite. Di questo modus operandi, che corrisponde poi a un sentimento della realtà e del cinema, si ricorderanno (magari inconsapevolmente) molti registi successivi, fra cui il sudcoreano Kim Ki-duk.

(1) Reperibile nel volume monografico a cura di M.R. Novielli, F. Firola e B. Fornara, Yanagimachi Mitsuo, pubblicato in occasione della 17esima edizione del Bergamo Film Meeting (1999).

Titolo originale: 火まつり (Himatsuri). Regia: Yanagimachi Mitsuo; Sceneggiatura: Nakagami Kenji; fotografia: Tamura Masaki; scenografia: Kimura Takeo; montaggio: Yamaji Sachiko; musica: Takemitsu Tōru; interpreti: Kitaōji Kin’ya (Tatsuo); Taichi Kiwako (Kimiko); Miki Norihei (Yamakawa); Miyashita Junko (Sachiko, moglie di Tatsuo); Nakamoto Ryota (Ryota); Morishita Aiko (maestra); Yasuoka Rikiya (Toshio); Kin Sugai (madre di Tatsuo); Sachiko Matsushita, Masako Yagi (sorelle di Tatsuo); Aoi Nakajima (sorella di Kimiko); Kenzo Kaneko (cognato di Kimiko); produzione: Shimizu Kazuo, per Cine Saison, Gunro, Seibu; durata: 126′.

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