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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

LOVE HOTEL (SŌMAI Shinji, 1985)

SPECIALE ANNI OTTANTA

di Vittorio Renzi

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Sōmai è un regista decisamente eclettico: dall’esordio con la commedia romantica The Terrible Couple (Tonda kappuru, 1980) all’originalissimo Sailor Suit and Machine Gun (Sērā-fuku to kikanjū, 1981), che univa in modo delizioso e spiazzante il seishun eiga (cioè i film sugli adolescenti) allo yakuza eiga. Per giungere poi a Typhoon Club (Taifū kurabu, 1985), di nuovo un seishun eiga ma con uno sguardo che plana su una giovinezza confusa e frammentata che in qualche modo fa da ingresso a registi come Toyoda Toshiaki e Sono Sion. Con Love Hotel, uscito in quello stesso anno, Sōmai fornisce una sua peculiare versione del roman porno, sottogenere del pinku eiga di casa alla Nikkatsu, raccontando la storia di un piccolo editore fallito che rincontra la prostituta che aveva tentato di uccidere due anni prima. Alla sceneggiatura c’è Ishii Takashi, che di lì a qualche anno sarà promosso a regista.

Muraki Tetsuro, un editore in difficoltà economiche, viene spinto oltre il limite dopo che una gang di yakuza, non avendo riscosso da lui il denaro che gli avevano prestato, gli violentano la moglie. Distrutto, Muraki decide di suicidarsi, non prima però di aver ucciso una prostituta a caso in un love hotel. La malcapitata, che si fa chiamare Yumi,  dopo essere stata da lui legata e seviziata, riesce a fuggire. Due anni dopo, Muraki, che adesso lavora come tassista, s’imbatte in una donna che è sul punto di gettarsi in un fiume e le impedisce di compiere l’atto. Quella donna è Yumi…

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Naturalmente, dato che Sōmai non è un regista strettamente “di genere”, non possiamo aspettarci il tipico, pruriginoso roman porno; Sōmai con i generi ci gioca, combinandoli tra loro, forzando alcune caratteristiche a dispetto di altre. Soltanto che qui, a subire questo rimescolio, questo rimasticamento, non sono solo i generi cinematografici ma anche il gender, le identità di genere. Più che un softcore alla giapponese, dunque, Love Hotel appare in primo luogo come un dramma nel quale né gli uomini né le donne riescono più a ritrovare una propria identità definita, un loro posto nel mondo. O quantomeno nella società giapponese degli anni ’80, quella dell’ingresso vorace nel mercato immobiliare e azionario, destinato a subire di lì a pochi anni un forte scossone a causa della bolla speculativa che inizierà a formarsi proprio a distanza di un anno dall’uscita del film. A quarant’anni dalla tremenda disfatta subita dal Giappone, e a seguito delle pressioni per il rinnovamento e le liberalizzazioni a tutto campo promosse dal regime di occupazione statunitense, la figura del patriarca forte e autorevole è oramai definitivamente smantellata e dismessa. Al suo posto, troviamo quest’uomo che assiste, sgomento e inorridito, a un atto che letteralmente fa a pezzi la sua mascolinità: la scena in cui Muraki torna a casa e vede un criminale della yakuza che violenta sua moglie – l’uomo, come già accennato, non ha restituito per tempo i soldi che gli erano stati prestati – è decisamente scioccante per il modo in cui è rappresentata. Ryoko, riversa su una scrivania, viene presa da dietro, con violenza, mentre gli altri del gruppetto sogghignano e assumono pose intimidatorie nei confronti dell’impotente marito. Ma ciò che più disturba è che sua moglie sembra in qualche modo partecipe e consenziente a quella violenza sessuale, tant’è che lo spettatore può avere la straniante l’impressione che Muraki sia capitato sul set di un… roman porno, appunto. Soltanto che quella donna è sua moglie! E’ certamente per via di questa presunta connivenza di Ryoko (probabilmente un artefatto, una deformazione della sua mente causata dallo shock) a scatenare l’odio di Muraki per le donne, che si concretizza nel proposito di aggredire una giovane prostituta.

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La trama non si sviluppa in modo lineare: Muraki dapprima tenta di buttarsi da una finestra, ma, distratto da una mosca, desiste. O meglio, rimanda il suo proposito. Si reca quindi in uno dei tanti “hotel dell’amore” e telefona a un’agenzia di call girls per richiedere una prostituta. La stanza in cui l’uomo aspetta è avvolta da luci rosate emanate da un’insegna al neon su una parete, scritta che dà il titolo al film. Nella scena più propriamente roman porno del film, quando Yumi lo raggiunge, l’uomo, estremamente agitato, appare indeciso su come comportarsi; poi la inganna, riuscendo a infilarle un paio di manette ai polsi e la  butta sul letto (circondato da uno specchio quadripartito), le strappa i vestiti, la minaccia con un coltello e le dichiara disperato il suo proposito di uccidere prima lei e poi se stesso. Alla fine però non solo non porta a termine la violenza sessuale su di lei, ma la lascia fuggire. Due anni dopo, ritroviamo Muraki che vive una strana relazione con Ryoko: nonostante siano oramai separati, lei si presenta a casa sua, si spoglia; i due fanno l’amore, ma Muraki non la ama più, esegue quell’atto quasi con disprezzo e poi subito la caccia via. Viceversa, quando incontra di nuovo Yumi, salvandola dal suicidio (la ragazza, che ha chiuso col suo vecchio mestiere, viene però ricattata dalla moglie del suo attuale amante e datore di lavoro), è lei a voler “riprendere da dove si erano interrotti”, vuole che lui la conduca nuovamente in un hotel e che la prenda con la forza. E’ delusa dal suo amante e ora vuole rifarsi con il suo quasi-stupratore. Come una coazione a ripetere del trauma che l’uomo le ha provocato. Muraki rimane disorientato, non ne ha alcuna intenzione, quella rabbia cieca che lo aveva colto due anni prima non c’è più. Anzi, la vede come un angelo che, seppur involontariamente, lo ha salvato dall’abisso. Yumi, dal canto suo, appare altrettanto persa: la ricerca affannosa di un orecchino smarrito, dapprima a casa del suo ex amante, poi sul molo dove stava per buttarsi nei flutti, sembra simboleggiare proprio questo stato di dispersione, di pura casualità.

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In conclusione abbiamo dunque, aldilà delle scene di sesso, anche un altro ingrediente fondamentale del roman porno: il sadomasochismo. Che però Sōmai articola in un modo che esula dal puro meccanismo di entertainment e si focalizza – con un’ottica più behaviourista che psicologica – sui personaggi. Ovvero, un uomo confuso e disperato che non sa più come comportarsi con una donna; una moglie che ha umiliato il marito rendendosi consenziente (o forse no) a uno stupro sotto i suoi occhi, e che ora, da ex, continua a tornare da lui, atteggiandosi a tradizionale moglie sottomessa; infine, una ragazza che, pur non esercitando più il “mestiere”, seguita a manifestare senza inibizioni la propria disponibilità sessuale, ma finisce per scegliere uomini che non riescono ad apprezzarla, che non mantengono le loro promesse. Lo sguardo di Sōmai, come al solito, osserva ma non giudica, i suoi piani sequenza – mai esibiti come tali – studiano i personaggi nel loro cercarsi, nel loro disfarsi, tentando di catturare, ancora una volta, quella intima, minima umanità che sottintende a qualsiasi ruolo o concezione di sé.
Love Hotel riscosse ben cinque premi al Yokohama Film Festival, inclusi quello di miglior film e miglior regia.


Titolo originale: ラブホテル (Rabu hoteru). Regia: Sōmai Shinji; sceneggiatura: Ishii Takashi; fotografia: Miura Tadashi, Oyamada Katsuji, Shinoda Noboru; montaggio: Tomita Isao; personaggi e interpreti: Hayami Noriko (Yumi/Tsuchiya Nami), Terada Minori (Muraki Tetsuro), Shimizu Kiriko (Muraki Ryoko), Masutomi Nobutaka (Ohta Kiyoshi), Nakagawa Rie (Ohta Masayo), Ibu Masatō (cliente nel taxi), Satō Kōichi (tassista), Kinomoto Ryō (yakuza); produzione: Directors Company, Nikkatsu. Uscita in Giappone: 3 agosto 1985. Durata: 88’.

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