Miryoku no ningen (魅力の人間, The Charm of Others)
Miryoku no ningen (魅力の人間, The Charm of Others). Regia, sceneggiatura e montaggio: Ninomiya Ryūtarō. Fotografia: Nishimura Yusuke. Musica: Pot au feu. Interpreti: Hosokawa Yoshitaka, Ninomiya Ryūtarō, Ashihara Kenuske, Udagawa Daisuke, Makino Takuya. Produzione: Ninomiya Ryūtarō per la 4%Pantyline. Durata: 89’. Prima proiezione pubblica: settembre 2012 PIA Film Festival. HD Cam
Punteggio ★★★1/2
Vincitore del secondo premio al PIA Film Festival 2012, presentato ai festival di Vancouver e Rotterdam e considerato da qualcuno (Nicholas Vroman, il curatore del bel sito «A Page of Madness») il più «entusiasmante» («thrilling») «debutto giapponese dell’anno», The Charm of Others è un piccolo film indipendente che pur non staccandosi dalle norme che dominano i cosiddetti «film da festival» si presenta come un’opera indubbiamente degna di interesse.
I caratteri del «film da festival», come dicevamo, sono più che evidenti: sia sul piano della costruzione del racconto (una narrazione debole dal carattere episodico dominata da un evidente iperrealismo del quotidiano, che in termini negativi vorrebbe dire «succede poco e niente»), sia su quello del linguaggio filmico altrettanto pacato e fatto di lunghi piani sequenza, uso della macchina a mano – ma mai troppo shaky (traballante) – e predominanza di campi totali.
Il film ha un’ambientazione operaia, e protagonisti ne sono un gruppo di giovani lavoratori di una società che ripara distributori automatici di bevande. Tre personaggi emergono dall’insieme: il taciturno Kōji, poco incline a socializzare coi compagni, il disinvolto Masaru, che in più di un’occasione vessa lo stesso Kōji approfittando della propria “anzianità” di servizio, e l’ingenuo Sakata, che in diverse circostanze tenta di spezzare la “sfera di vetro” dentro cui Kōji si rintana, invitandolo a giocare a pallone insieme agli altri.
Una buona parte del film è dedicata alle proletarie conversazioni dei suoi protagonisti, che vertono sulla ragazza di un girls’ bar di cui Masaru è innamorato – che questi immagina «non fare nemmeno la cacca» –, sul pachinko, o sullo yakiniku, la popolare carne alla griglia coreana – offrendoci così uno sguardo efficace sulla povertà e desolazione di un certo immaginario di classe, dove anche il solo sogno di una vita «altra», o di qualcosa di diverso da ciò che il quotidiano immediatamente ti offre, è del tutto azzerato.
Giocato con un certo senso di umorismo sul ripetersi di piccoli fatti e situazioni, che sono tutt’uno con l’asfissiante ripetitività dell’esistenza dei suoi protagonisti, il film tende poi a concentrarsi sul solitario e vessato Kōji, il quale trova uno strano modo di reagire alla propria situazione, prendendosela con una tipica e assai diffusa espressione giapponese: «kawaisō». Una locuzione usata nei confronti di qualcuno per cui si prova una certa pietà e compassione, che potrebbe essere tradotta come «poverino». Poiché la condizione che Kōji vive in fabbrica – dove è ripetutamente vessato da Masaru – è proprio quella che chiunque definirebbe come «kawai sō», il giovane non permette a nessuno, ragazze o ragazzi che siano, di usarla nei confronti di chicchessia. E così quando ubriaco incontra di notte Sakata, che proprio con tale espressione gli ci si rivolge, finirà col gettarlo a terra e prenderlo a calci. L’evento non sarà che il presupposto dell’epilogo del film, in cui Kōji, per scusarsi con Sakata, accetterà di essere da questi sculacciato a sedere scoperto davanti agli allibiti e divertiti sguardi di Masaru e compagni [Dario Tomasi]