Nippon no, misemonoyasan
Nippon no, misemonoyasan (ニッポンの、みせものやさん). Regia: Okutani Yōichirō. Fotografia: Okutani Yōichirō, Watanabe Kenichi, Hasayaki Kohei. Montaggio: Okutani Yōichirō, Ebato Yūdo. Suono: Hwang Young Chang. Musica: Machikado Minoru. Durata: 90′. Data di rilascio: 8 dicembre 2012.
Link: Sito ufficiale
Una lunga tradizione che sta piano piano scomparendo in Giappone è quella dei misemonoyasan, sorta di piccoli circhi ambulanti o freak show alla giapponese dove lo spettatore poteva (e può ancora) vedere esseri deformi, mangiatori di fuoco, mangiatrici di serpenti e altro ancora. Naturalmente non sempre tutto era reale, finzione e realtà si mescolavano spesso, ma proprio qui stava il gioco ed il divertimento del pubblico che affollava i matsuri, i festival stagionali di solito organizzati dentro e nei pressi di un santuario shintoista, dove insieme a tutte le altre bancarelle, i misemonoyasan avevano la possibilità di esercitare.
Il regista Okutani Yōichirō si interessa a questa forma di intrattenimento di strada a metà del decennio scorso quando incontra un anziano signore che gestisce un tiro a segno, un ex membro di un misemonoyasan. Il documentario ci racconta il tempo che il regista è riuscito a passare e condividere con uno degli ultimi gruppi di questo intrattenimento, riuscendo ad entrare in comunità con i restanti membri che piano piano cominciano ad aprirsi con lui. Oramai tutti piuttosto avanti con gli anni, i protagonisti, fra uno spettacolo e l’altro, ci raccontano di come una volta i gruppi fossero molto numerosi e di come ora stiano aspettando solo la fine di questa “gloriosa arte”. Questi gruppi, un po’ come i circhi europei, “assorbivano” persone scappate, gettate vie dalle proprie famiglie, reietti.
Si scopre così un Giappone quasi parallelo. Belle le immagini che si soffermano sui poster, eccessivi, kitsch e quasi dal gusto ero-guro, come forti sono le scene in cui una vecchia performer si esibisce nel suo numero di sputafuoco o nell’incredibile atto di mangiare la testa di un serpente vivo. Purtroppo un argomento così interessante e che poteva attivare moltissimi discorsi sulle minoranze e sulle marginalità ancora presenti oggi in Giappone viene appiattito dal solito problema che colpisce i lavori in economia realizzati in digitale: sciatteria e mancanza di espressività nelle immagini, con un montaggio che poteva osare di più. Probabilmente, se girato in 8 o 16mm sarebbe stato un piccolo gioiello, questo per dire come sono ancora pochi gli autori che sono riusciti a trovare un proprio linguaggio con il nuovo mezzo digitale, specialmente nell’arte documentaria. Nonostante questo, il film resta un’opera di notevole importanza anche, se non soprattutto, per il suo interesse a livello di folkloristica visuale o di antropologia visiva, ai cui generi andrebbe forse accomunato. [Matteo Boscarol]
Il regista Okutani Yōichirō si interessa a questa forma di intrattenimento di strada a metà del decennio scorso quando incontra un anziano signore che gestisce un tiro a segno, un ex membro di un misemonoyasan. Il documentario ci racconta il tempo che il regista è riuscito a passare e condividere con uno degli ultimi gruppi di questo intrattenimento, riuscendo ad entrare in comunità con i restanti membri che piano piano cominciano ad aprirsi con lui. Oramai tutti piuttosto avanti con gli anni, i protagonisti, fra uno spettacolo e l’altro, ci raccontano di come una volta i gruppi fossero molto numerosi e di come ora stiano aspettando solo la fine di questa “gloriosa arte”. Questi gruppi, un po’ come i circhi europei, “assorbivano” persone scappate, gettate vie dalle proprie famiglie, reietti.
Si scopre così un Giappone quasi parallelo. Belle le immagini che si soffermano sui poster, eccessivi, kitsch e quasi dal gusto ero-guro, come forti sono le scene in cui una vecchia performer si esibisce nel suo numero di sputafuoco o nell’incredibile atto di mangiare la testa di un serpente vivo. Purtroppo un argomento così interessante e che poteva attivare moltissimi discorsi sulle minoranze e sulle marginalità ancora presenti oggi in Giappone viene appiattito dal solito problema che colpisce i lavori in economia realizzati in digitale: sciatteria e mancanza di espressività nelle immagini, con un montaggio che poteva osare di più. Probabilmente, se girato in 8 o 16mm sarebbe stato un piccolo gioiello, questo per dire come sono ancora pochi gli autori che sono riusciti a trovare un proprio linguaggio con il nuovo mezzo digitale, specialmente nell’arte documentaria. Nonostante questo, il film resta un’opera di notevole importanza anche, se non soprattutto, per il suo interesse a livello di folkloristica visuale o di antropologia visiva, ai cui generi andrebbe forse accomunato. [Matteo Boscarol]