Sennen no yuraku (千年の愉楽, The Millenial Rapture)
Sennen no yuraku (千年の愉楽, The Millennial Rapture). Regia: Wakamatsu Kōji. Soggetto: da un romanzo di Nakagami Kenji. Sceneggiatura: Wakamatsu Kōji, Ide Mari. Fotografia: Tsuji Tomohiko, Nitsukawa Yūsaku. Montaggio: Nakamoto Kumiko. Musica: Nakamura Mizuki, Hashiken. Interpreti e personaggi: Terajima Shinobu (Oryū), Kōra Kengo (Hanzō), Sano Shirō, Takaoka Sōsuke, Sometani Shōta, Iura Arata. Produzione: Kon Hiroko, Ozaki Noriko per Wakamatsu production. Durata: 118’. Prima proiezione pubblica: Festival del Cinema di Venezia 4 settembre 2012.
Link: Sito ufficiale – Sentieri Selvaggi – FilmTv – Hollywood Reporter – Video intervista a Wakamatsu Kōji (con traduzione italiana)
Punteggio ★★★
Ultimo film di Wakamatsu Kōji, prima della sua tragica scomparsa a causa di un incidente d’auto avvenuto pochi giorni fa nel quartiere di Shinjuku, a Tokyo, The Millennial Rapture è anche il suo terzo film del 2012, dopo Mishima (presentato a Cannes) e Petrel Hotel BLUE. Incluso nella sezione Orizzonti dell’ultimo Festival di Venezia, The Millennial Rapture è tratto da un romanzo di Nakagami Kenji, Mille anni di piacere, edito in Italia da Einaudi, nel 2007, con la bella traduzione di Antonietta Pastore. Nakagami, nato nel 1946 e scomparso nel 1992, è uno dei maggiori scrittori giapponesi del Novecento, quello che più di altri ha affrontato nella sua opera la controversa realtà dei burakumin, ovvero gli “abitanti dei ghetti”, discendenti – come lo stesso Nakagami – da macellai, conciatori o becchini, e considerati in quanto tali impuri per via del loro contatto con i cadaveri e il sangue. A lungo emarginati, i burakumin– che rappresentano il 2-3% della popolazione giapponese – sono stati emancipati in epoca Meiji, con l’abolizione nel 1871 delle classi sociali, e di conseguenza di quei “fuori casta” cui essi appartenevano. Ma la loro discriminazione in quanto “minoranza invisibile” è durata a lungo nel tempo e, in una certa misura, continua ancora oggi, dove non sono poche le società che negano loro un posto di lavoro o le famiglie che rifiutano di unire ad essi in matrimonio qualche loro congiunto. Nel riprendere il romanzo di Nakagami, Wakamatsu mette però in secondo piano i temi legati alla discriminazione dei burakumin, per riprendere invece la dimensione fantastica, mitica e leggendaria propria della narrativa dello scrittore. Protagonista della storia è l’anziana Oryū (la Terajima Shinobu premiata al Festival di Berlino del 2010 per Caterpillar, sempre di Wakamatsu, ma che va ricordata soprattutto per le sue straordinarie interpretazioni in Vibrator, 2003, e It’s Only Talk, 2005, entrambi diretti da Hiroki Ryūichi) che avendo perso in giovane età un figlio per ragioni di indigenza è divenuta levatrice. La donna, sul punto di morte, ha un dialogo immaginario col ritratto funebre del marito, cui ricorda la storia della famiglia Nakamoto e della maledizione che ha gravato su essa. Il suo racconto verte soprattutto su due giovani discendenti di tale famiglia, Hanzō e Miyoshi, entrambi belli, dannati e votati all’autodistruzione: il primo sarà ucciso dal marito di una delle sue innumerevoli amanti e il secondo finirà per impiccarsi, distrutto dalla droga e dalla sua attività criminale. Il carattere soggettivo della storia, tutto è narrato dalla levatrice che ha messo al mondo i due giovani ed è stata sempre vicina a loro, giustifica un uso piuttosto insolito del tempo, in cui epoche diverse si mescolano e oggetti recenti irrompono in luoghi dove ancora non potrebbero esistere. Questa particolare caratteristica del film bene si accompagna alla sua dimensione mitica, continuamente evocata dal riferimento alle divinità delle antiche religioni giapponesi. I due giovani protagonisti della vicenda più che esseri umani dotati di discernimento sembrano essere soggetti incapaci di sottrarsi alla forza degli impulsi che li guidano, siano essi il desiderio sessuale – che un terzo breve racconto porterà addirittura a una sorta di incesto – o l’eccitazione per il crimine. O meglio, più che agire sembrano agiti, costretti a un fato che decide per loro e in loro vece.
In Millennial Rapture – che non è certamente il film più interessante dell’ultimo Wakamatsu – si ritrova quell’affermazione di un punto di vista interno a un gruppo più o meno consolidato – qui i burakumin che vivono confinati su un’isola, in Mishima, lo scrittore e i suoi giovani accoliti della Società degli scudi, in United Red Army, i membri dell’omonima organizzazione rivoluzionaria studentesca – attraverso cui il regista, più che disegnare i legami di questo o gli altri gruppi con la società di cui sono parte, si concentra esclusivamente sulle dinamiche che regolano i rapporti dentro ognuna di queste realtà, in un clima quasi claustrofobico, che proprio per la sua assenza di apertura non può che portare a una sorta di autodistruzione (le morti di Hanzō e Miyoshi, il suicidio di Mishima e Nakata, gli assassinii fra i membri dell’United Red Army). Da questa prospettiva, il cinema dell’ultimo Wakamatsu, ma si potrebbe agevolmente anche tornare indietro nel tempo ad alcuni film del suo primo periodo, sembra costituirsi come una vera e propria metafora di certi meccanismi propri a una società che, come quella giapponese, ha sempre dato un gran peso alla dinamiche interne di gruppo, piuttosto che a quelle di relazioni fra gruppi. [Dario Tomasi]