Dark water
I migliori film del cinema giapponese dal 2000 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine
Honogurai mizu no soko kara (仄暗い水の底から, Dark Water). Regia: Nakata Hideo. Sceneggiatura: Ichise Takashige, Nakata Hideo, Nakamura Yoshihiro e Suzuki Ken’ichi da un racconto di Suzuki Koji. Fotografia: Hayashi Jun’ichirō. Montaggio: Takahashi Nobuyuki. Musica: Kawai Kenji e Suga Shikao. Interpreti e personaggi: Kuroki Hitomi (Matsubara Yoshimi), Kanno Rio (Matsubara Ikuko a 6 anni), Oguchi Mirei (Kawai Mitsuko) Mizukawa Asami (Hamada Ikuko a 16 anni), Kohinata Fumiyo (Hamada Kunio), Tokui Yu (Ohta, l’agente immobiliare), Yatsu Isao (Kamiya, il portiere), Ogi Shigemitsu (Kishida, l’avvocato di Yoshimi), Shinagawa Tōru (Preside dell’asilo di Ikuko). Produzione: Ichise Takashige. Distribuzione: Tōhō Company Ltd.. Durata: 101’. Uscita nelle sale giapponesi: 19 gennaio 2002.
Distribuito in Italia in DVD da Dolmen Home Video.
Brussels International Festival of Fantasy Film 2002: vincitore del Silver Raven. Gérardmer Film Festival 2003: vincitore del Grand Prize, vincitore dell’International Critics Award e del Youth Jury Grand Prize. Sitges – Catalonian International Film Festival 2002: Menzione speciale, Nomina per Miglior Film. Altri Festival: Berlino, Bruxelles, Sidney, Mosca, Edimburgo, Helsinski, Stiges, Varsavia, Londra, San Sebastián, Uppsala, Stoccolma, Filadelfia, Los Angeles, Gérardmer, Amsterdam, Manila, Amburgo, Seoul.
Divorziata dal marito ed ottenuta, non senza difficoltà, la custodia della piccola Ikuko, Matsubara Yoshimi si trasferisce all’interno di un umido e modesto appartamento di periferia, dove la figlia, giocando sul tetto dell’edificio, accanto ad una grande cisterna, ritrova una rossa borsetta abbandonata. La bimba vorrebbe tenerla, ma sua madre glielo impedisce e posta sul bancone della portineria, la borsetta sarà gettata tra i rifiuti senza essere reclamata. Costretta a lottare continuamente per far valere le proprie ragioni, contro un marito che la fa pedinare ed un sistema sociale che non vede di buon occhio una madre separata, Yoshimi si sente sola contro il mondo, angosciata dall’idea di perdere la sua Ikuko. Iperprotettiva e spaventata da inquietanti visioni che la tormentano, Yoshimi rischia di essere considerata instabile dal tribunale che deve confermarle l’affidamento, mentre un’ingente infiltrazione d’acqua continua a diffondersi sul soffitto della sua camera da letto. Una sera, per accontentare Ikuko, madre e figlia si recano sul tetto dello stabile per accendere alcuni fuochi d’artificio, ritrovandosi nuovamente davanti la misteriosa borsetta. Yoshimi, impaurita, decide di liberarsene personalmente, certa che un’invasiva presenza è prossima a mettere a repentaglio l’incolumità della sua bambina. Un giorno, quest’ultima cade in convalescenza a seguito di un incidente avvenuto all’asilo e scompare inspiegabilmente dalla sua stanza. La madre, accorsa in sua ricerca, la ritrova nell’appartamento sopra il loro, dove viveva Kawai Mitsuko, una bambina di cui si sono perse le tracce da ormai due anni. Grazie all’aiuto dell’avvocato Kishida, Yoshimi e Ikuko riescono a ritrovare un po’ di serenità, ma una sera, tra gli oggetti della bimba, appare di nuovo la rossa pochette. Intenzionata a mettere fine alla faccenda, Yoshimi si dirige da sola verso il tetto dell’edificio, scatenando l’ira del fantasma che, terrorizzandola, la costringe a ritornare trafelante dalla figlia. Sotto un’acqua torbida che gronda scrosciante, Yoshimi cerca scampo in ascensore tenendo tra le braccia la sua bambina priva di sensi, quando con sgomento e stupore, osservando il dischiudersi della porta del suo appartamento, vi vede uscire la piccola Ikuko…
Insieme a Kurosawa Kiyoshi, Shimizu Takashi e Tsuruta Norio, Nakata Hideo è indubbiamente uno dei registi a cui è necessario fare riferimento quando ci si avvicina alla new wave horror nipponica nata nella seconda metà degli anni novanta e consolidatasi nel corso del decennio successivo. Una corrente che ha saputo rinnovare il cinema giapponese del sovrannaturale introducendo abilmente nuove componenti, guardando al presente e raccontando un fantastico che ha radici lontane, profondamente radicate nella terra d’origine dei registi che ne hanno preso parte. Come è accaduto con il celebre e seminale Ringu (Nakata Hideo, 1998), anche la trama che si trova alla base di Dark Water è tratta da un racconto di Suzuki Koji, sebbene nel suo evolversi strutturale, a differenza del racconto, raggiunga soluzioni differenti. La trasposizione cinematografica, adattata, tra gli altri, dal regista e da Ichise Takashige (in quest’occasione in duplice veste di scrittore e produttore), nasce infatti dal testo letterario per arrivare ad un’accurata composizione stilistica e simbolica, rivolgendosi a tematiche di interesse collettivo rimaste in nuce nel testo letterario. Perseguendo i dettami del genere e concentrandosi su una disamina delle articolazioni del tessuto sociale contemporaneo, gli autori delineano efficacemente l’empatica fermezza di una madre costretta a confrontarsi con le forze dell’ignoto e le imposizioni di una società ostracizzante.
Dipingendo l’acqua quale connubio di contaminazione e purezza, minaccia imminente con cui il male ha possibilità di diffondersi, Nakata rappresenta il diverso tramite una sua percezione allusiva. Rifiutando un’esibizione diretta, la regia autentica la presenza dello spettro attraverso una sensazione tattile (lo stillare dell’umidità, il fantasma che stringe la mano di Yoshimi in ascensore), a cui fa capo una fisionomia informe, sovente testimoniata dalle soggettive segmentate delle protagoniste. L’umido ascensore e i luoghi chiusi e raccolti, divengono ambienti topici di contatto con il diverso, l’altro da sé, che si avvicina tanto lentamente, quanto in modo inesorabile. L’autore elabora un corto circuito di punti di vista, introdotto dalle soggettive di Kamiya, il portiere dello stabile che osserva, attraverso il monitor di sorveglianza, la statica sfigura del fantasma porsi al fianco delle protagoniste, fino a giungere all’esemplificativa sequenza dove Ikuku, nascosta sotto un tavolo, assiste all’avanzare grave dello spettro, nei suoi piedi zuppi d’acqua. Nakata decide di non mostrarne la figura per intero, ma di ritagliarne solo un dettaglio, concedendo un punto di vista parziale. Operazione che costringe lo spettatore ad uno sguardo marginale, che necessita completamento, incrementando il coinvolgimento emotivo tramite un riuscito processo di identificazione. Collocando la camera all’altezza del terreno e determinando una forte riquadratura interna al campo generata dalle componenti del profilmico, la regia di Nakata invita ad un dialogo dell’ambiente nei confronti dell’elemento umano, posto in condizione sfavorevole, soggetto alla coercitiva presenza di pavimenti, soffitti, porte, scale, anfratti, corridoi da percorrere e soglie da attraversare. La regia insinua, suggerendo la presenza di un’entità che non si pone solo nel fuoricampo (luogo da cui è attratta Yoshimi, nel suo tentativo di comprendere ciò che sta accadendo), ma si colloca direttamente al fianco dei personaggi, rafforzando il proprio statuto. La dialettica dello sguardo diviene sinonimo di un’attenta sintassi e di un modo indiretto di narrare i rapporti umani, caratterizzati da una profonda introspezione emotiva e relazionale: il fantasma sembra tendere al vivente, non necessariamente per nuocere, piuttosto per appagare i propri disattesi sentimenti.
Nakata e Ichise ritraggono una società in recessione economica dalle relazioni disagiate, popolata da madri devote ma eccessivamente impegnate, padri assenti e distaccati. I legami si scoprono precari e distanti ed all’unione e alla sicurezza si contrappone irrisolvibile la separazione e la necessità di crescere facendo affidamento unicamente su se stessi. In tale contesto, il sovrannaturale si inserisce come spunto per raccontare il dramma degli affetti negati e non corrisposti, le rotture insanabili che vengono contemplate (in particolare nell’intenso epilogo, una delle sequenze migliori del regista) con uno sguardo che non incute timore, bensì una densa mestizia. Il fantasma è il lascito della consapevolezza dell’inconciliabile mancanza di affetti, condizione che si mostrerà come unica alternativa possibile per Ikuko e Yoshimi, ormai definitivamente disgiunte e costrette a intraprendere percorsi differenti, sebbene venga concesso loro un ultimo incontro. Il vuoto e l’assenza assumono così una significazione particolare, richiamando in causa un fantastico legato alla tradizione letteraria e cinematografica nipponica. Il fantasma diviene entità che vige accanto al vivente, influenzandone passivamente l’esistenza, impregnando i rapporti di un’angosciosa nostalgia per qualcosa che poteva essere e non è stato (un’infanzia felice, normale) e non sarà più (un legame materno privato). Per Yoshimi e Ikuko vige una rassegnazione colma di rammarico nel percepire una deriva esistenziale progressivamente incontenibile: la presenza del fantasma suggella in tal modo la definitiva disintegrazione del nucleo famigliare, processo già precedentemente avviato dal divorzio della donna dal marito. Attraverso il dramma e l’orrore per lo sconosciuto, Nakata racconta dunque la precarietà lavorativa, il desiderio di poter perseguire una vita semplice, l’ideale di famiglia unita e felice, l’infrangersi di tali presupposti nello scontrarsi con una realtà di reticenze e sostegni negati.
Caratterizzato da un’accurata costruzione tensiva, un attento uso degli spazi e della staticità interna al piano legata ad un’evocazione costante del fuoricampo, il film di Nakata richiama puntualmente una serie di temi che appartengono alla tradizione del fantastico nipponico: elementi circolari, la fondamentale importanza dell’acqua come binomio di vita e di deperimento, l’astante presenza del defunto e i suoi pervasivi capelli. In tempi successivi, il regista ha esplorato ancora il cinema del sovrannaturale con la collaborazione americana di The Ring 2 (2005) e l’omaggio al tradizionale cinema di fantasmi, Kaidan (2007), senza però eguagliare il valore delle sue opere precedenti. A dieci anni di distanza ed un omonimo remake statunitense non altrettanto riuscito (Dark Water, Walter Salles, 2005), l’opera di Nakata riesce tuttora, senza manierismi ed enfatizzazioni, ad incutere un genuino disagio. Forte delle sue componenti maternali che conducono alla corruzione della mente e del corpo, al malessere insito in ambienti tetri ed uterini, sui quali grava costante una sensazione di rinuncia ed abbandono, il film esprime con sentito trasporto il bisogno di contatto fisico che appartiene ad ognuno di noi e l’imprescindibile attaccamento (che certamente la morte non ha modo di mitigare) che lega l’essere umano alla vita e ai suoi cari. [Luca Calderini]