Shokuzai (贖罪 – Atonement) – Episode 3
Sorvegliata a vista ed in attesa di giudizio, Akiko Takano racconta ad Asako la storia della sua redenzione. Dopo aver scoperto il corpo di Emiri, Akiko, con indosso un elegante vestito donatole dalla zia, corse da Asako per informarla dell’accaduto, finendo con l’essere scaraventata a terra da un suo gesto impetuoso. Ferita e con l’abito nuovo imbrattato di sangue, Akiko non osa andare a casa per paura dei rimproveri materni quando incontra il fratello maggiore Kōji, sulle sue tracce a seguito di una telefonata della polizia. Il fratello cerca di confortarla, mentre i genitori considerano l’accaduto come la conseguenza delle sue azioni insolenti: l’abito che indossava era per lei troppo raffinato, come non era degna di intrattenersi in amicizie con persone di un rango a lei nettamente superiore.
Quindici anni più tardi, Akiko, una ragazza dall’aspetto non particolarmente attraente, vive segregata nella sua stanza. Figlia di una madre coercitiva e priva di una figura paterna di sostegno, Akiko risente della lontananza di Kōji, l’unico a cui è davvero legata. Da qualche tempo, Kōji si è infatti trasferito nella capitale in cerca di un impiego, quando un’improvvisa telefonata ne preannuncia il ritorno. L’uomo decide di soggiornare per un breve periodo presso la sua casa natale, portando con sé la moglie Haruka, una donna più grande di lui, e Wakaba, bambina della quale è divenuto padre adottivo. Progressivamente, Akiko entra in confidenza con la piccola, diventandone amica e custode; nonostante la tenue felicità ritrovata, la ragazza percepisce qualcosa di ambiguo nel fratello, atteggiamenti e gesti che assumono ora un nuovo significato. A causa delle numerose assenze della madre, la giovane trascorre sempre più tempo insieme a Wakaba, rendendosi conto che la bimba teme effettivamente il patrigno. Di ritorno da Tokyo, Haruko porta in dono ad Akiko un nuovo vestito, invitandola a scoprire la propria femminilità al di là delle critiche materne che la costringono ad una vita di opprimente ritiro. Con l’aiuto della cognata, Akiko indossa il vestito che le è stato regalato, si trucca ed in compagnia della nipotina si reca a fare shopping per le vie del centro dove, accidentalmente, vede il fratello avvicinare una ragazzina in divisa scolastica. I suoi sospetti trovano conferma e quando Wakaba la implorerà in lacrime di non permettere a Kōji di riportarla a casa, la giovane si troverà di fronte ad un bivio, valutando se ascoltare la sua invocazione d’aiuto oppure fingere che niente stia accadendo. Mentre Akiko riflette agitata sul da farsi, la macchina di Kōji si allontana con a bordo la piccola e la giovane si getta in un vano inseguimento, accasciandosi esausta al suolo. La ragazza si recherà in aiuto della bimba, ma solo dopo la richiesta della madre di riportare a quest’ultima una tuta da ginnastica che le ha lavato e stirato. Come di sua natura, Akiko è impossibilitata ad agire indipendentemente, ogni sua azione è la causa di un’obbedienza. La giovane porrà fine all’agire del fratello, ma il suo gesto, benché nobile, non le garantirà il perdono di Asako, la quale vi vedrà soltanto il manifestarsi di gelosia e mero egoismo.
Concentrandosi sul rapporto di reciproco sostegno, affetto, complicità e risentimento tra fratello e sorella, la struttura narrativa di Bear Siblings definisce una storia maggiormente convenzionale rispetto ai precedenti episodi di Shokuzai. Interpretata da un’inusuale Andō Sakura (quasi irriconoscibile rispetto al suo ruolo in Love Exposure), Akiko è una ragazza normale che si considera brutta, sgradevole e impacciata, imponendosi autonomamente la sofferenza e il distacco dal mondo che la circonda. Kurosawa sottolinea ampiamente tale condizione fin dalla sua prima apparizione sullo schermo, ritraendo una goffa e scura figura che di spalle si staglia su uno sfondo bianco, emergendo ed avanzando sgraziata dal margine basso del quadro verso la profondità del campo. Un “orso”, come è solita chiamarla la madre e come lei stessa si definisce, un animale inadeguato a vivere accanto al prossimo e ad atteggiarsi da donna, un essere che non è degno di apparire femminile poiché contro la sua stessa natura. Punto nevralgico di questa tragica condizione, secondo cui «un orso dovrebbe vivere come un orso», è il rapporto fraterno con Kōji, il solo a prestarle considerazione, disposto a soccorrerla nel momento del bisogno e a generare in Akiko un particolare sentimento verso il passato e verso la sua persona, ignara che il suo ritorno rappresenterà un incontrovertibile cambiamento per la propria esistenza. Il tempo per lei sembra essersi fermato, come una bambina che si scopre sola e abbandonata, respinta e inutile, nel corpo di una ragazza ormai divenuta donna: l’abilità nel salto con la corda, la lettura dei manga, i videogames fine anni ottanta e il giocare con gli insetti paiono i sintomi di un blocco esistenziale, delineando una creatura che deve ancora librarsi, che deve «uscire dal proprio guscio» come ricorda Haruko alla madre di Akiko dopo aver porto in dono a quest’ultima un nuovo vestito, nel tentativo di smuoverla dalla propria sonnacchiosa apatia evolutiva.
Difficoltà relazionali dunque, da parte di personaggi che si confrontano in luoghi che nonostante il loro apparire claustrofobici e raccolti (la camera di Akiko, come l’intero appartamento dei genitori) insidiano distanze emotive incolmabili – si noti il campo lungo in semi soggettiva dei genitori che descrive il primo incontro di Kōji di ritorno presso la sua famiglia, separando gli uni dagli altri di una decina di metri. Luoghi che sono accostati ad ampi spazi privi di vita, in cui l’autore fa eco ad un cinema che gli è proprio da Cure a Sakebi. Esemplificativa, a tal proposito, la panoramica circolare che esplora l’ambiente desolante del grande magazzino dove Kōji lavora e ha trasferito la sua nuova famiglia: una superficie indagata e apparentemente inanimata dove, avvolto dalla penombra, il volteggiare di sacchetti di plastica assume valenze spettrali facendosi carico di esprimere quel malessere recondito che non appartiene tanto all’ambito dell’esibizione diretta, quanto al percepito degli stessi protagonisti. Metafore visive che culminano nella giustapposizione di Akiko che tiene tra le dita un coleottero e il materializzarsi, nell’inquadratura successiva, di un enorme orso di peluche nella sua camera, monito di un’inadempienza che grava sulla sua coscienza e che ancora una volta evidenzia la contrapposizione tra quella che è la perseverante indifferenza del prossimo e la necessità di adoperarsi al cambiamento, incontrando, a quel punto, le necessità dell’altro. Senza necessariamente dover seguire le consuetudini del genere, Kurosawa si mostra capace di incutere un’inquietudine epidermica grazie ad un uso ipertrofico dell’evento inatteso e surreale: l’“orso”, personificato e frutto dell’inconscio, si fa icona emblematica nelle molteplici connotazioni di isolamento, rapporto fraterno, legame con l’infanzia e di un inconciliabile senso di colpa.
Il tentativo di Akiko di fare ammenda dei propri errori non riceverà tuttavia assoluzione, essendo giudicato da Asako come un semplice atto di vendetta personale ai danni di chi l’ha ferita e vessata. La giovane punisce dunque il potenziale aguzzino non per proteggere o soccorrere qualcuno, ma per soddisfare un proprio risentimento, negandone il fine ultimo, senza potersi affrancare da un’espiazione che deve essere incondizionata e rivolta a ripagare le colpe acquisite in passato. Schiava della sua condizione di reietta, Akiko non è in grado di operare un vero cambiamento (né per se stessa, né per poter dare una svolta alle indagini sull’omicidio di Emiri) e cercherà in Asako il surrogato di una redenzione nel perseguimento della morte, termine ultimo dell’iniqua condizione a cui lei stessa si è sottoposta per tutta la vita. Kurosawa esprime dunque compiutamente come scelte e gesti siano causa indiretta, e spesso involontaria, della sofferenza altrui. I rapporti interpersonali sono un universo in continuo divenire dove la correlazione, benché non sempre manifesta, delinea legami profondi quanto suscettibili al corrompersi: non avere stima di se stessi è prima di tutto non avere cura del prossimo. [Luca Calderini]