Toilet
Toilet (トイレット, Toilet). Regia, soggetto, sceneggiatura: Ogigami Naoko. Fotografia: Michel Leblanc. Scenografia: Diana Abbatangelo. Costumi: Horikoshi Kinue. Interpreti e personaggi: Motai Masako (la nonna), Alex House (Ray), Tatiana Maslany (Lisa), David Rendell (Maury). Produzione: Eisei Gekijo, Hakuhodo DYMedia Partners, Kōbunsha. Durata: 109’. Uscita nelle sale giapponesi: 28 agosto 2010.
Link: Intervista alla regista (Timeout Japan) – Nicholas Vroman (a page of madness) – Hollywood Reporter
All’improvvisa morte della madre, tre fratelli si ritrovano a vivere sotto lo stesso tetto, insieme alla nonna. Siamo a Toronto: Ray, un trentenne un po’ nerd, single e amante dei modelli in plastica dei supereroi spaziali, poco dopo il funerale lascia il proprio appartamento e torna ad abitare nella spaziosa casa di famiglia. Qui vivono il fratello Maury, dotato pianista affetto da frequenti attacchi di panico che gli impediscono di uscire di casa e Lisa, la sorella minore, studentessa universitaria alle prese con corsi di poesia e fidanzati egocentrati. Insieme a loro la nonna giapponese, baachan, un’anziana silenziosa (non parla una parola di inglese) che la madre aveva fatto arrivare dal Giappone, e il gatto Sensei.
La convivenza comporta qualche attrito, soprattutto per Ray, che viene sistematicamente estromesso dal bagno dalla nonna, la quale poi, uscendo, si produce in misteriosi sospiri. Intanto Maury si impossessa di una vecchia macchina da cucire della madre con la quale crea arditi modelli (lunghe gonne a fiori, che poi indossa) e a poco a poco quest’attività sembra avere il dono di “sbloccare” il genio del ragazzo, che torna a suonare il pianoforte con risultati eccelsi. Lisa si appassiona alle esibizioni di un air guitarist, che suona una chitarra immaginaria. Tra le tante ossessioni di Ray c’è invece quella di dimostrare con un test del DNA che l’anziana non è una loro parente: il risultato del test gli svelerà invece – colpo di scena – la verità sulle sue origini. Riuscirà comunque alla fine a scoprire le ragioni di tanto sospirare dell’anziana donna: la nostalgia per un bel bagno giapponese, capace di fare cose inimmaginabili ai poveri frequentatori di tristi toilettes occidentali.
«Ogni civiltà si riflette nel modo in cui viene usato il bagno», è l’assioma del collega indiano di Ray, al quale il ragazzo si rivolge per risolvere l’arcano di una nonna silenziosa che non fa altro che sospirare. Una nonna e un bagno: casualmente tempo fa mi sono imbattuta in una leggenda popolare giapponese “rivisitata” da una cantante pop, Uemura Kana, in una sua canzone, Toire no kamisama, nella quale si parla di una ragazzina che viene invitata dalla nonna a pulire con ardore il bagno perché in esso risiede una divinità capace di trasformare le bambine in ragazze avvenenti. Che siano archetipi importanti dell’immaginario giapponese o meno, Ogigami Naoko sceglie questi due elementi per introdurre la sua storia di ironiche stramberie e profonde verità, ambientata in Canada, a Toronto.
Un interessante pretesto, certo, il bagno, per rappresentare fin da subito un universo di contrapposizioni: alla quotidianità problematicamente nevrotica dei tre fratelli si oppone la calma risolutiva, e orientale, della nonna; alle tante, spesso inutili, parole dei giovani, si contrappone un silenzio antico e profondo fatto di sospiri e sguardi.Conferma la sua bravura l’attrice Motai Masako, già nei precedenti film della regista, nel dare corpo e movimenti alla saggezza, nel riempire i riquadri formati dalle pareti della casa, nello spingere lo sguardo oltre la finestra, per vedere, lei sì ne sembra capace, oltre le apparenze. Quando al concerto di Maury si alza per aiutare il nipote facendolo riprendere dallo stallo psicologico nel quale è caduto, e pronuncia l’unica parola che sentiremo uscire dalle sue labbra durante tutto il film, «cool», l’attesa viene premiata ed è liberatoria e gratificante quasi quanto – le inquadrature che riprendono Ray lo testimoniano – una seduta in un creativo bagno giapponese.L’ordine prestabilito che Ray si è creato, viene intaccato dalla presenza di questa donna minuta che non parla. Il ragazzo vorrebbe, sembra, liberarsene, tornare al momento in cui la sua vita era rappresentata da una mensola sulla quale modelli di supereroi da fumetti, dall’aspetto maschio e vigoroso, sfilavano ordinati. L’idea del test del DNA si rivela peraltro un boomerang: sarà proprio lui a risultare l’elemento spurio della famiglia, quello che era stato accolto come un gatto randagio (il riferimento non è a caso: ci sono spesso gatti nei film della regista, nel più recente soprattutto, Rent-a-Cat. E poi il gatto del film si chiama Sensei, che significa “maestro”). Ogigami Naoko si interroga sulla famiglia, come diversi altri registi giapponesi contemporanei, si pensi, per fare solo alcuni esempi, a Morita Yoshimitsu in Family Game (1983), a Miike Takashi in Visitor Q (2001), a Yoshida Daihachi in Funuke, Show some Love You Losers! (2007), più di recente al giovanissimo Yoshida Koki nel suo Kazoku X (2010), e, soprattutto, a Sono Sion, da Noriko’s Dinner Table (2005) a Himizu (2011). La regista peraltro, invece di concentrarsi come molti dei suoi colleghi sulle disfunzionalità delle famiglie giapponesi contemporanee, si sofferma sui legami profondi che uniscono i membri di un gruppo familiare: il fatto che essi abbiano origine da fonti biologiche o semplicemente affettive non sembra, infine, fare differenza. Ciò che conta è il reciproco sostegno in questo mare di solitudine che è la vita, visivamente riassunto nelle inquadrature corali dei protagonisti riuniti attorno al tavolo a preparare insieme i gyosa(ravioli giapponesi).
Toilet è un film che affronta tra gli altri, mi pare, anche il problema della (mancata) omologazione: i tre fratelli sono tutti, ciascuno per il proprio verso, mondi a parte rispetto all’ambiente che li circonda. Maury ha una personalità borderline, Lisa è sempre in conflitto con i compagni di corso, Ray, l’ordinato e preciso Ray, sembra malcelare, dietro alle carezze ai muscolosi modellini o alle schermaglie verbali con l’effemminato collega di laboratorio, vaghe tendenze omosessuali. La loro forza scaturisce dall’essere uniti, dalla reciproca accettazione nella diversità. In questo senso i saggi silenzi della donna anziana appaiono a mio parere come un “collante” delle loro verbose solitudini. E, anche, li aiutano a chiarire con se stessi le proprie peculiarità ed esigenze, come quando a turno vanno da lei per chiederle in prestito dei soldi. Maury, il primo ad aver affrontato lo sguardo indagatore della donna, spiega agli altri che, nonostante lei non risponda, «capisce, ma devi essere sincero». Quasi che davanti al silenzio di lei nulla valga se non il far emergere la propria autentica essenza.
La regista utilizza a tratti movimenti avvolgenti della macchina da presa, quasi, sembrerebbe, proprio a “proteggere” i suoi personaggi indifesi dalle insidie del mondo che li circonda. Lo stesso movimento che utilizza nell’introdurre la vecchia macchina da cucire Singer, ritrovata da Maury in una stanza in mezzo a oggetti dimenticati, metafora della madre venuta a mancare, la quale in vita era probabilmente la protettrice a sua volta dell’unità della famiglia.
La comunicazione tra i tre da un parte e la nonna dall’altra, proprio a causa delle reciproche caratteristiche, fa sì che si vengano a creare momenti tanto intensi quanto esilaranti: una sera Ray, contrariato, non cena con il resto della famiglia, ma, quando la sala da pranzo sembra deserta, si siede al tavolo a consumare uno snack con una birra. Proprio in quel momento la nonna esce dal bagno e lo vede. In assoluto silenzio la donna gli serve, con movimenti lenti, precisi e misurati, un piatto dei suoi famosi gyosa e si siede al tavolo a fumare una sigaretta. Il momento è intenso. Ray sulle prime reagisce mettendosi sulla difensiva: «solo le persone incivili fumano», poi cede all’atmosfera invitante del momento e si accende una sigaretta anche lui. La luce è calda e avvolgente. Il fascino enigmatico della donna che fuma e beve silenziosa, non può non coinvolgere anche lo spettatore. È ancora il silenzio di lei che, sciogliendo i nodi di tensione, stimola la riflessione: il ragazzo parla, quasi come a se stesso, ricorda che era la madre che gli preparava i ravioli, ringrazia ripetutamente la nonna. Quando fa il segno “ok” alzando il pollice verso l’alto e la donna risponde nello stesso modo, colpisce la genialità del semplice gesto che all’improvviso, e quasi teneramente, colma distanze che parevano enormi.
Profonde verità, sguardo tagliente nelle ferite della vita, si diceva, servite su un piatto infarcito di trovate decisamente comiche. La nonna che, mentre i tre divorano entusiasti i cuscinetti di sushi commentandone a gran voce la squisitezza, ne assaggia a malapena uno e, dopo averlo masticato lentamente, posa i bastoncini e, senza che nessuno dei muscoli del suo volto tradisca qualsivoglia emozione, lascia il tavolo e la stanza, è una sequenza molto divertente. Così come quella, finale, nella quale Ray finalmente sperimenta il bagno fatto arrivare dal Giappone. Il viso del ragazzo ripreso in primo piano esprime tutto il piacere dell’esperienza, ma, subito dopo, l’urna che contiene le ceneri della nonna cade inavvertitamente facendo fuoriuscire le polveri che finiscono dritte nella toilette. Si chiude così il cerchio: la nonna entra a far parte di uno degli emblemi della superiorità tecnologica nipponica, si ricongiunge idealmente alle proprie origini, e il rumore dello scoscio dell’acqua di scarico sullo schermo nero chiude la sua storia terrena e anche il film. Una nonna e un bagno, come si diceva all’inizio. E, con leggerezza ma anche sensibilità, tutta la nostalgia per ciò che è stato, per le proprie radici, per gli affetti autentici fuori da schemi prestabiliti.
Un ultimo accenno alle esibizioni di air guitar, presenti anche nei film precedenti della regista. Lisa per prima e poi anche la nonna e di seguito i fratelli ne rimangono affascinati, fino a “esibirsi” insieme sui titoli di coda. La chitarra non esiste, non c’è materialmente, ma attorno a questa evidente mancanza, si possono costruire momenti di condivisione e appagamento. Come nella vita, a volte è proprio ciò che manca a dare lo stimolo per il movimento, per la reazione, per l’accendersi della passione. [Claudia Bertolè]