Nochi no hi (後の日, The Days After). Regia, sceneggiatura e montaggio: Koreeda Hirokazu. Soggetto: dal romanzo di Murō Saisei. Fotografia: Yamazaki Yutaka. Musica: Hatanaka Masato. Suono: Ōtake Shuji. Interpreti: Kase Ryo (il padre), Nakamura Yuri (la madre), Shibuya Takeru (il figlio/fantasma). Produzione: NHK Enterprises Inc., TV Man Union. Durata: 49’.Anno: 2010.
Un uomo è chino su di una tomba. Uscendo dal cimitero si accorge di essere seguito da un bambino dell’apparente età di circa 7 anni, e quando arriva a casa lo trova insieme alla moglie. La coppia ha perso il proprio figlio e si dibatte nel dolore di tale perdita. Da quel giorno iniziano una serie di visite da parte del bambino misterioso, scandite nei giorni. A poco a poco però l’inquietudine sale, il dubbio circa l’effettiva identità del bambino si fa strada in loro. Potrebbe essere la reincarnazione del figlio che hanno perso o anche un fantasma. Lo stesso bambino annuncia un giorno, sibillino: “voglio tornare indietro”. Se ne andrà infine, una sera, scomparendo nella notte, lasciando dietro di sé alla coppia non solo dubbi, ma anche il senso del confronto pacifico con il dolore della perdita e, forse, la possibilità di superamento della stessa.
L’episodio Nochi no hi è il contributo di Koreeda alla serie televisiva Ayashiki bungō kaidan (Kaidan Horror Classics) prodotta da NHK nel 2010. I quattro film che ne fanno parte – oltre a quello di Koreeda, Hazakura to mateki (The Leafy Cherry Tree and Magic Flute) di Tsukamoto Shin’ya, Hana (The Nose) di Lee Sang-il, Kataude (One Arm) di Ochiai Masayuki – sono adattamenti di racconti horror di scrittori classici. Il film di Koreeda sembra concedere poco spazio alla tradizione del fantasma pieno di rabbia (onryō) che torna a vendicarsi di torti subiti durante la vita terrena, archetipo del classico cinema horror giapponese degli anni ‘60 e ‘70, così come alla sua “ripresa” in anni più recenti, come la celebre serie Ring, e, tantomeno, alle produzioni splatter e gore occidentali. Qui il mistero e l’orrorifico si tingono di pura poesia.
In
Nochi no hi è la natura, viva e inquieta come in altri film di Koreeda, che introduce al tema: in una delle scene di apertura, mentre il padre esce dal cimitero, un vento improvviso si alza, in lontananza si sentono versi striduli di uccelli e colpi, da chissà dove. L’uomo si ferma, si volta, e la macchina da presa lo immortala come in una soggettiva dall’alto. Subito dopo lo vediamo camminare in un bosco di alberi altissimi, smossi dal vento, mentre la figura sfocata di un bambino lo segue. Fino ad un tunnel, nel quale l’uomo entra e diventa una sagoma nera disegnata in evidenza sul semicerchio di luce dell’uscita: proprio lì, nella luce, la figura del bambino si intravede, poi lentamente si dissolve, come un miraggio. Impossibile non scorgervi un rimando a quel “raggio di illusione”, a quella luce potente e seduttiva che in
Maboroshi no hikari attraeva l’uomo suicidatosi – o forse no – sui binari del treno. Qui l’attrazione è incarnata dalla “presenza” stessa del bambino-spirito, che rappresenta in sé la morte, il mondo ultraterreno. Un passo avanti, sembrerebbe, rispetto al film citato, che nessun indizio concedeva circa il significato del bagliore misterioso.
Il film si dipana sui temi classici di Koreeda, l’angoscia per la perdita delle persone care, il ricordo; ed è ancora, come nei precedenti film, il mondo dell’infanzia ad interessare il regista, che riprende il piccolo “fantasma” nei momenti in cui non appare altro che un bambino, che gioca con la madre con palle di carta colorate o si intrattiene in cucina mentre lei prepara la cena.
A differenza di altri film, il già citato Maboroshiper esempio, in Nochi no hi il regista fa un gran uso di primi piani. In quel film la giovane vedova Yumiko veniva spesso abbandonata in desolati campi lunghi, fantasma di sofferenza interiore. Qui che di fantasmi veramente si tratta, i volti dei due genitori riempiono l’inquadratura, esprimendo a tratti chiaramente, e senza che alcun dubbio venga lasciato allo spettatore, tutta la loro perplessità. Allo stesso tempo però vi è un ricorrere insistito a sguardi che sembrano cercare un “altrove” fuori dalla cornice dell’inquadratura. La coppia spesso si rivolge con gli occhi al di là del quadro nel quale sono rinchiuse le figure, con un movimento lento e all’unisono dei volti che non può che intendere la volontà di sottolinearlo. Particolarmente evidente in una delle scene finali del film, quando il bambino se ne è ormai andato e loro due, seduti sul portico di casa, allungano le mani come ad accarezzare una forma invisibile, mentre i loro sguardi escono e vanno oltre ciò che può essere visto.
Il regista utilizza inoltre uno strumento quasi classico per rappresentare il mondo dei vivi e quello dei morti a confronto: l’alternanza nitido/sfocato – luce/buio. Tutto il film, dall’inizio, è un continuo reiterare lo schema, sia all’interno della stessa inquadratura (in una delle primissime appunto l’uomo cammina mentre il ragazzo lo segue, ma la sua figura, pur presente, risulta sfocata), sia nell’alternanza delle stesse.
Nochi no hi si iscrive nelle tematiche horror, non tanto per la presenza di un “mostro” che determina repulsione, quanto piuttosto per lo “scarto” continuo tra realtà e irrealtà che propone, oltre che per l’inquietudine che il regista sapientemente fa crescere nel corso del film. Un sequenza in particolare è quella in cui la madre si trova da sola in un angolo della casa, seduta di fianco ad uno specchio. Nel riquadro di vetro si intravede dapprima il veloce passare di una figura e subito dopo le piccole mani del bambino appaiono sul collo della donna, da dietro, a cingerla, prima di svelare la presenza di lui. L’inquietudine aumenta nel corso del film, se pur nel calore delle scene di famiglia: i due genitori, provati dalla morte del figlio e ritrovatisi con una sorta di surrogato alla felicità familiare che hanno perso, vi si adagiano in un primo momento, in quanto la nuova situazione può se non altro lenire il loro dolore. E stabiliscono una specie di “complicità” con il piccolo fantasma, come quando si divertono a immaginare cosa può aver pensato il negoziante dal quale hanno comprato le caramelle, probabilmente che fossero per la bambina più piccola.
Nel finale Koreeda sembra voler aderire allo schema del cinema horror delle origini nel quale vi era infine un ritorno all’ordine, dopo che il fantasma di turno aveva compiuto la propria vendetta. Nell’alternanza del buio con la luce, l’ultima inquadratura è infatti per quest’ultima: l’uomo e la donna si ritrovano sul portico di casa, ripresi di schiena, incorniciati dalla luce intensa del giorno. Dopo l’”apertura” e il confronto, il mondo dei morti torna ad essere quell’”altrove” presente, ma separato. [Claudia Bertolè]
Interessante davvero… non vedo l'ora di poterlo recuperare per vedere all'opera Koreeda su atmosfere a lui così distanti. ciao, c
anche in territori inusuali per lui, Koreeda riesce sempre a regalare gioielli di gran cinema. Ogni volta che vedo un suo film è una conferma, e allo stesso tempo continua a stupirmi. Da vedere, si. ciao. Claudia