Ichimei (Hara-kiri: Death of a Samurai)
Ichimei (Hara-kiri: Death of a Samurai). Regia: Miike Takashi; soggetto: dal romanzo Ibun roninki di Takibuchi Yasuhiko; sceneggiatura: Yamagishi Kikumi; fotografia: Kita Nobuyasu; musica: Sakamoto Ryūichi; interpreti: Ichikawa Ebizo, Eita, Yakusho Kōji, Mitsushima Hikari, Ichikawa Shinosuke; durata: 126′; uscita: maggio 2011- 64° Cannes Film Festival.
Link: Sito ufficiale – Maggie Lee (The Hollywood Reporter) – Raffaele Meale (Cineclandestino.it)
Punteggio ★★★★
Due film di samurai in pochi mesi. Dopo Jūsannin no shikaku (13 Assassins), remake dell’omonimo film di Kudo Eichi del 1963, Miike Takashi torna sulle immagini e sulle storie di un classico del genere diretto da Kobayashi Masaki (Seppuku, Harakiri) sempre nel ‘63. Ichimei è un film che come spesso accade nel cinema del regista giapponese, riesce a far convergere innumerevoli segni, talvolta opposti, talvolta paragonabili. L’estremo della modernità e l’estremo della tradizione, dove per modernità si deve intendere tutto ciò che è implicito ad uno sguardo conficcato nell’oggi, al punto che il 3D è usato come se ci fosse sempre stato, senza effetti straordinari, ma straordinario esso stesso perché mette il cinema nella condizione di osservare di più, di trasformare la percezione del tempo nel momento in cui si è agito sulla rappresentazione dello spazio. Profondità, dunque, che si vede e che si sente, mentre le quinte di una messinscena teatrale si aprono e si chiudono creando un’illusione “illusoria”. Teatralità del cinema per un regista che sa dare sempre un senso ai dettagli. In questa storia di strane vendette Miike trasforma l’epica in politica, il dramma in melodramma, il racconto in specchio frammentato e ingannevole, mentre i codici vengono scardinati e mostrano il sangue vivo dei loro meccanismi. Hanshiro, samurai ridotto in povertà chiede il permesso di suicidarsi nella residenza del clan Ii, comandato da Kageyu. Nel tentativo di scoraggiare Hanshiro, Kageyu gli racconta la tragica storia di Motome che, poco tempo prima aveva avanzato la medesima richiesta. La storia si ripete, certo, ma è destinata al cortocircuito. Sta qui l’eccesso di ironia di un autore che dissimula anche la leggerezza e la sottrae allo sguardo, salvo, poi, riproporcela in una forma che potremmo chiamare grafica. Ecco l’antico segno del cinema di samurai che si fa gesto, paradossalmente sempre meno fisico, e procede come il volo di una piuma. Troppo leggera/troppo pesante per disegnare una linea, una traiettoria, ma capace di volare senza doversi posare mai. Allo stesso modo la narrazione di Miike assume le forme di un racconto “infinito”, che potrebbe proseguire senza trovare mai una fine. Ecco la tecnica diventare intimità in un racconto che gira su se stesso, raccoglie gli elementi del genere e via via li decodifica (come la spada non di metallo ma di bambù) e li disgrega (come le scene di combattimento, aeree coreografie stilizzate di suoni e dolore). Nei molteplici livelli narrativi, temporali, visivi di questo film, si cerca la giusta distanza, tra lo sguardo e il suo oggetto, tra presente e passato, tra il genere e la sua umana reinterpretazione, perché il nodo qui sta nel groviglio di sentimenti che attraversano la storia e il cinema, nel dover sempre scegliere tra necessità e desiderio. [Grazia Paganelli – 64° Cannes Film Festival, 2011]