classici1-1845135

SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

THE MILLION RYO POT aka TANGE SAZEN AND THE POT WORTH A MILLION RYO (Tange Sazen yowa: Hyakuman ryō no tsubo, YAMANAKA Sadao, 1935)

SONATINE CLASSICS: IL CINEMA DI YAMANAKA SADAO
 
Presentato al 39° Torino Film Festival (sezione “Back to Life”) in versione restaurata 4K
 

 

La figura di Tange Sazen, rōnin nichilista e protettore dei deboli, orbo e monco a causa di un tradimento, è un’icona popolare della cultura pop giapponese la cui fama precede di qualche anno The Million Ryo Pot (1935) – il primo, in ordine cronologico, dei tre soli film sopravvissuti di Yamanaka Sadao (1909 – 1938). Creato da Hayashi Fubō come personaggio secondario – poi promosso a protagonista – di un serial a puntate apparso tra il 1927 e il 1928 sul quotidiano Mainichi Shimbum, sull’onda del successo letterario non tarda a catturare l’interesse del cinema, con ben tre diverse case di produzione che mettono in cantiere altrettante pellicole a lui dedicate: la più rilevante, prima dell’opera cardine di Yamanaka, è il Tange Sazen del 1933 di Itō Daisuke, che vede nel ruolo del samurai decaduto lo stesso attore poi utilizzato da Yamanaka in The Million Ryo Pot: il carismatico Ōkōchi Denjirō.

 

Nel fermento culturale della Kyōto dei primi anni ’30, Yamanaka Sadao – purtroppo destinato a una prematura morte al fronte in Manciuria, a soli ventinove anni – è il brillante leader del gruppo Narutaki: otto giovani e audaci cinephiles che, in contesto di libertà creativa e autonomia produttiva, intendono affrancarsi dai canoni della tradizione del cinema giapponese, per modernizzarne radicalmente stile e contenuti, guardando senza diffidenze ai modelli e al linguaggio hollywoodiano, filtrati da sensibilità e caratteri della realtà nipponica rivisti alla luce dell’attualità. Fin da The Million Ryo Pot Yamanaka vuole operare una profonda revisione del film in costume in senso contemporaneo, girando un jidaigeki come fosse un gendaigeki (dramma moderno) sotto camuffate spoglie, o, per usare la felice definizione del regista Inagaki Hiroshi: “a gendaigeki with a topknot”. Eliminando il sostrato mitologico, elegiaco e romantico delle grandi gesta eroiche del samurai, Yamanaka vuole trasferirne la figura secolarizzata in un contesto più minuto, realistico e ordinario. Per farla aderire, con umori da ironica commedia umana, a temi e problemi in cui la gente comune del suo tempo potesse maggiormente rispecchiarsi (aprendo la strada agli shomingeki di Ozu e Naruse). Inoculando, tra costumi e personaggi dell’epoca Tokugawa (1603 – 1868), una velata e beffarda critica sociale su un presente ostaggio di una deriva autoritaria. Ritraendo un’umanità che viene messa in luce nell’immanenza quotidiana, “nella complessa problematica di cui si costituisce l’esistenza di ognuno” (Maria Roberta Novielli, Storia del Cinema Giapponese, Marsilio, 2001). 

The Million Ryo Pot segue la vicenda dell’inetto Lord Genzaburo, che si libera avventatamente di un vaso donatogli dal ricco fratello, senza sapere che al suo interno vi è disegnata una preziosa mappa che conduce a una ricca somma di denaro. Il suo cammino incrocerà quello di altri personaggi quali il pigro e scontroso samurai Tange Sazen e il piccolo orfano Yasu. 
La ricerca del vaso viene immediatamente sfrondata di epica, solennità e tensione drammatica. La camminata di Genzaburo con il bastone, subito stoppata (giunto all’angolo, si ferma e paga un vassallo affinché svolga il compito al posto suo), si svolge a passo (accelerato), ritmo e stile chapliniani, ripresa lateralmente con la stessa leggerezza pigra, baldanzosa e caricaturale del successivo marciare di Tange Sazen diretto all’emporio. Lungi dal creare un crescendo di avventurosa suspense intorno al vaso oggetto della contesa, Yamanaka lo fissa spesso riposto in un angolo, sul pavimento di una stanza, quasi fosse un personaggio silente che fa l’occhiolino allo spettatore, sempre messo a parte di ubicazione e spostamenti della giara, mentre viene irrisa la ronde dei distratti o inconsapevoli personaggi che vi gravitano attorno affannandosi alla sua ricerca. Il pavido e indolente Genzaburo è inabile a far onore al ruolo che dovrebbe ricoprire (l’austero signore, il marito fedele, l’indomito guerriero), letteralmente incapace di perseguire e “centrare” i suoi obiettivi: imbraccia l’arco solo per diletto e manca maldestramente ogni tiro al bersaglio, nell’immagine del fallimento che accumula in sovrimpressione il groviglio spiovente delle frecce scagliate a vuoto. L’elemento parodico-umoristico emerge ad ogni livello, dal dialogo che spernacchia la seriosità della quest («potrebbero volerci dieci o vent’anni» per trovare il vaso, viene detto a ripetizione), alle transizioni spiazzanti del montaggio (in ben tre diverse occasioni, i personaggi fanno esattamente l’opposto di ciò che affermano con decisione nella scena precedente), fino a scene propriamente comiche (il tentativo di fuga notturna di Genzaburo, bloccato dei servi che lo assalgono scambiandolo per un ladro). 
 
Nel circolo di tiro con l’arco, il setting principale, il crocevia che dirige l’affluenza di ingressi, uscite e incroci narrativi (come nella bisca del successivo Kōuchiyama Sōshun, 1936), emerge l’abilità stilistica di Yamanaka nel dislocare porzioni di spazio e scavallamenti in profondità di campo, secondo una dialettica geometrica tra la frontalità orizzontale del quadro e gli spostamenti in verticale al suo interno: come spiega Maria Roberta Novielli (op. cit. 2001), “sull’asse visivo, che nella maggior parte dei casi si apre perpendicolare alla macchina da presa, i personaggi entrano ed escono lateralmente con un ritmo sempre diverso, concatenando singole esperienze del vivere”. Il tracciato perpendicolare è ribadito da un lento e sinuoso carrello laterale, che partendo da un campo totale sulla cantante – presa nell’eseguire una canzone nostalgica allo shamisen – si muove orizzontalmente verso sinistra, avvicinandosi alle pareti in cui sono affissi i bersagli (ripresi in dettaglio con alcuni raccordi in asse ravvicinati), per culminare, all’incrocio ideale della perpendicolare, nello scatto in avanti, sull’asse verticale, di una freccia che va ad incocciare uno dei bersagli (immagine-rima che ritornerà nella freccia gettata svogliatamente da Tange Sazen nel finale). Nel puntuale e giocoso découpage compositivo, è curioso come la disposizione della statuetta del maneki neko (il gatto portafortuna con la zampetta alzata), di fronte o girata al contrario, messa “a guardia” della zona marginale presieduta da Tange Sazen, si comporti come una macchina da presa che dispone piani e rovesciamenti di campo: non appena Tange Sazen volta la statuetta, simbolo del suo ritiro dalla centralità del quadro (e della storia), l’inquadratura stacca immediatamente sulla suonatrice in mezzo alla stanza. 
 
I frequenti salti di ambientazione avvengono con modernissimi jump-cut in asse che suturano ampie ellissi temporali. Si prenda il dialogo tra Genzaburo e la moglie iniziato nel salone domestico, e che termina nel locale tra lo stesso Genzaburo e l’intrattenitrice: l’inquadratura, abbassata al livello del pavimento, prima indugia in dettaglio sull’hakama (la gonna-pantalone dei nobili samurai) che Genzaburo si sta infilando. Quindi, rapidamente, lo stacco sul dettaglio dello stesso indumento che l’uomo si sfila di dosso con noncuranza, e il passaggio al campo totale che rivela come Genzaburo si trovi ora non più nell’abitazione domestica bensì al circolo, tra sorrisi gioviali alle dame di compagnia. Una minuzia registica che dietro il semplice significato descrittivo – Genzaburo si sgrava dei doveri per dedicarsi ai piaceri – rappresenta alla perfezione la simbolica svestizione smitizzante dell’icona del samurai, la sua armatura iconica stilisticamente smontata un pezzo alla volta da Yamanaka. E in cui si ravvisa, al tempo stesso traslucida e nascosta, la satira che sbeffeggia l’etichetta pomposa e le forme rigorose del nuovo regime militare, che preme sulla vita giapponese dopo la svolta ultranazionalista nel periodo tra le due guerre. The Million Ryo Pot, come gli altri film di Yamanaka, è un film politico che critica con ficcante sottigliezza le derive autoritarie del Paese, tralasciando completamente i valori dominanti, conservatori e patriottici dell’eroismo classico, la ragion di Stato (giri), per concentrare il suo sguardo sul minimalismo esistenziale dei personaggi, sui sentimenti e le emozioni umane (ninjō) che muovono il piccolo grande corso degli eventi quotidiani. Yamanaka preserva, della coscienza e del codice (e)stinto del samurai, il fattore di umanità e compassione incarnata dall’antieroe Tange Sazen: pur scorbutico e inconcludente, è a suo modo un personaggio empatico, capace di pietas altruistica verso gli ultimi della società, che accoglie il tenero orfanello Yasu sotto la sua ala protettiva (sul modello – secondo il critico Hasumi Shigehiko – del film americano Lady and Gent (1932) di Stephen Roberts).
 
L’intento dissacrante e burlesco di Yamanaka emerge infine nel drastico ripensamento in tono minore del motivo cardine del jidaigeki: il duello. In sostanziale anticlimax, il duello del prefinale tra Tange Sazen e Genzaburo è filmato in campi lunghi a camera pressoché fissa. A una distanza inconsueta, che appiattisce i movimenti dei contendenti e annulla lo spessore epico dei tipici controcampi in primo piano della tradizione, la gestualità impostata e l’aura sacrale, il dinamismo stilizzato e le pose plastiche del jidaigeki classico, che vengono sformati e sfumati nelle cadenze di una gag slapstick, di una goffa baruffa domestica di botte e ruzzoloni. Effetto ancor più rafforzato dalla natura puramente prosaica e opportunistica della disputa (Tange Sazen la cerca per ottenere il denaro che gli serve per ripagare un debito, Genzaburo fa di tutto per sottrarvisi); e dalla caratura codarda e ridicola di lord Genzaburo: venuto meno alla difesa dei valori e dell’onore degli avi (la moglie vorrebbe si battesse per recuperare dignità di fronte ai vassalli di cui ha perso la fiducia), arriva al punto di implorare pietosamente Tange Sazen di lasciarlo vincere, dietro promessa di un ricco compenso. Anche la contesa in strada tra Tange Sazen e l’avventore che gli sbarra il cammino, assume il carattere casuale e improvvisato di un semplice scontro tra briganti: l’uccisione con la katana avviene in un invisibile “taglio” di montaggio che astrae l’episodio da qualsiasi rappresentazione visiva e sonora della violenza corpo a corpo del chanbara. Sgonfiando così in un solo, impercettibile colpo (di spada) sia l’ingessatura formale della raffigurazione teatrale sia il realismo sporcato e concitato dalla rilettura del genere operata in precedenza dai film di Itō. 
 
Daniele Badella
 
 
Titolo originale: 丹下左膳余話 百萬両の壺 (Tange Sazen yowa: Hyakuman ryō no tsubo); regia: Yamanaka Sadao; sceneggiatura: Mimura Shintarō; fotografia: Yasumoto Jun; musica: Nishi Gorō; interpreti: Ōkōchi Denjirō (Tange Sazen), Sawamura Kunitarō (Genzaburo), Kiyozō (Ofushi), Yamamoto Reizaburō (Yokichi), Takase Minoru (Shigeju), Kiyokawa Sōji (Shichibei), Hanai Ranko (Ogino); produzione: Nikkatsu; durata: 92′; uscita in Giappone: 15 giugno 1935; uscita italiana: 26 novembre 2021 – 39° Torino Film Festival – Sezione “Back to life” (restauro 4K).
CONDIVIDI ARTICOLO

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *