Genpin
PIA: Commenti 4/5 All’uscita delle sale 80/100
Links: A Page of Madness (Nicholas Vroman)
I film di Kawase Naomi tendono sempre a dividere il pubblico. C’è chi adora la sua produzione e chi non riesce a mandare giù il suo stile ed il suo approccio alla settima arte, sia essa documentario o fiction. E’ con quest’ultimo genere che è diventata famosa in Occidente ma allo stesso tempo continua ad alternare i due registri, e personalmente la preferisco come documentarista. Il suo ultimo lavoro, già passato ai Festival di San Sebastian, Valdivia e di Toronto, è un documentario sulla figura del professor Yoshimura Tadashi, che da più di quarant’anni porta avanti una clinica ostetrica dove viene praticato il parto naturale. La clinica si trova in un bosco e l’edificio e’ antico di trecento anni, protetto dagli alberi e immerso nel verde. Ciò non significa che le attività della clinica siano ferme al passato; al contrario, in fase di controllo pre-nascita e nel parto stesso vengono usati apparecchi moderni. E’ l’approccio alla nascita e soprattutto l’atteggiamento verso le future madri ad essere più ampio ed “antico”. Ciò significa non solo seguire una preparazione, quasi un training fisico prima del parto, fatto di cose tipo 300 squat al giorno ed il taglio della legna, ma anche e soprattutto – come afferma una delle donne intervistate – riscoprire “assieme con le altre partorienti la gioia di essere incinta e di essere donna”. Questo stato d’animo filtra benissimo fino a noi grazie ai primi piani delle protagoniste, filmate dalla Kawase stessa in 16mm: volti, espressioni, voci, che ci dicono molto della freschezza, della vita che si sprigiona da un corpo in un tale stato di cambiamento. L’occhio della regista non è distaccato ma parte dell’ambiente: interviene, talvolta sentiamo la sua stessa voce fare delle domande o interagire con le donne, con il dottore o le infermiere. Sparse nel corso del film assistiamo inoltre a scene di parto, necessariamente toccanti, e come potrebbbe esser altrimenti, su tatami in stanze semibuie e disadorne, dove la felicita’ della nuova vita ed il dolore insopportabile del parto si mischiano. Il film, man mano che procede attraverso le testimonianze di donne che hanno scelto di partorire nella clinica, si sposta sulla figura del dottore, sulla sua filosofia e anche sulla sua vita personale. Yoshimura e’ infatti un buon dottore ma un pessimo padre, come troppo spesso accade nella societa’ giapponese, dove la figura paterna e’ assente e/o disinteressata ai figli.
Grazie ad un ritmo sinuoso che sviluppa il suo significato quasi a spirale, la Kawase riesce a trasmetterci un ritratto articolato della comunità e più in generale dell’evento del parto. Se all’inizio il film sembra dedicarsi completamente alla nuova vita che nasce, in ultima istanza ci accorgiamo, anche grazie alle parole di Yoshimura, che la riflessione di fondo riguarda la morte e la naturale accettazione di essa, o meglio la sua inscrizione in un ordine/disordine naturale, non per questo meno terribile ed accettabile. In una scena, il dottore spiega ad una delle donne con parole tanto semplici quanto crude ed affilate che se il bambino nasce naturalmente va bene, se invece muore significa che lo spirito della natura (kami) non lo voleva. E’ questa infatti la filosofia di base della comunità, dove fare un parto naturale significa prima di tutto mettersi di fronte agli eventi che solitamente chiamiamo natura con umiltà, non rassegnazione bensì consapevolezza della e nella nostra finitezza. E’ un approccio sacro all’esistenza (come, per tutti altri aspetti, e’ sacro quello di Tsukamoto), che si rifà, se proprio dobbiamo etichettarlo, a quel complesso di pratiche animiste che vanno sotto il nome di shintoismo. L’esperienza della clinica e quella del dottore sono problematiche e non offrono di certo soluzioni di comodo, ed infatti come racconta una delle intervistate, c’e’ chi come lei ha deciso di lasciare la clinica per dare la luce al bambino in un ospedale “moderno”. [MB]